La notte in cui Napoli preferì Diego all'Italia
Diego il condottiero, il capitano, l’idolo di una folla che gli dedicò cori e canzoni, che sulla sua pelle porta ancora tatuato in maniera indelebile il viso furbo e scaltro di chi di quel popolo ne interpretò da subito le sofferenze.
Metropolis Quotidiano - Vincenzo Lamberti
Napoli è ferita a morte. Il cuore del mito ha smesso di battere e in pochi minuti la città che lo ha accolto, coccolato e venerato si riscopre violata, nuda e triste. El Pibe de oro e Partenope, lo scugnizzo di Villa Fiorito e la capitale del Sud, un legame unico ed eterno. Sembravano fatti l’una per l’altra Diego e la terra del Vesuvio. E il campione venuto da Barcellona lo capì subito. Quando salì le scale del San Paolo davanti a 80mila persone che avevano pagato mille lire solo per vederlo palleggiare, quando trascinò una squadra di buoni giocatori a vincere il suo primo campionato, quando bissò il successo tre anni dopo, quando trionfò in Europa, ma anche quando scappò con la barba lunga e gli occhi spiritati dopo quella partita col Bari che lo scoprì positivo alla cocaina. Napoli lo ha osannato, idolatrato, messo al centro della sua caotica vita sportiva e non. Lo ha anche ingoiato nei momenti bui, quelli dopo i quali si nascondeva nella sua villa di Posillipo.
Diego il condottiero, il capitano, l’idolo di una folla che gli dedicò cori e canzoni, che sulla sua pelle porta ancora tatuato in maniera indelebile il viso furbo e scaltro di chi di quel popolo ne interpretò da subito le sofferenze. Le fece sue, le amplificò, si mise a capo di quell’esercito di tifosi che dopo anni di amarezze riscopriva il dolce gusto della vittoria. I gol impossibili, le esultanze sotto la curva, le “guerre sindacali” con Ferlaino per difendere i suoi compagni, la rinuncia ai suoi privilegi.
Napoli ha amato il suo re, lo ha conservato prima nel cuore che nella memoria, ne ha fatto un idolo e un simbolo. Il riscatto, la rinascita, la fine della storico, atavico vittimismo. Napoli ieri sera ha acceso i fari dello stadio San Paolo, il suo palcoscenico, quello nel quale ha guidato la squadra ai trionfi e alle vittorie, dove ha raccolto gli applausi e le ola di un amore sconfinato e che resiste al tempo e alla memoria. Quei fari sono stati la luce accesa durante la notte di un ricordo che non ha mai smesso di esistere. Nello stadio, che forse da oggi diventerà il Maradona Stadium, tributo post-mortem al calciatore più forte del mondo che di quella squadra è stato leader e capo carismatico.
Nell’85 pagò di tasca sua un’assicurazione privata per giocare una partita di calcio in un campo fangoso ad Acerra. Le immagini immortalano il re del calcio mentre dribbla e segna in una porta dove, alle spalle, c’erano auto e motorini parcheggiati. Lo fece perché Puzone, uno dei giovanissimi di quella squadra, gli aveva chiesto una partita di beneficenza per una bimba che doveva subire un intervento chirurgico per il quale i soldi non bastavano. Diego era così. Il primo a metterci la faccia, l’ultimo a lasciare il campo. Napoli era la sua terra d’adozione, i napoletani il suo popolo. Anche nel 1990, durante i Mondiali che si tennero in Italia, Diego ribadì quel legame.
La sorte mise di fronte l’Argentina di Maradona e gli azzurri di Schillaci. Una semifinale decisiva che si giocò a Napoli. E lì, scaltro e furbo, ma anche vero e sincero, Maradona mandò un messaggio al suo popolo, ai suoi tifosi. “Oggi vi chiedono di tifare Italia, di essere italiani. Ma durante il resto dell’anno vi ignorano, vi insultano”. Quelle parole scatenarono il finimondo. I giornali italiani lo attaccarono, la federazione azzurra ebbe paura. Perché sapeva che quelle parole non sarebbero passate inosservate. I tifosi napoletani seguirono “El Diez” anche in quella battaglia, capirono che non erano frasi di maniera, dette solo per dividere il fronte dei tifosi dell’Italia. E in quella maledetta partita che l’Italia perse ai rigori, lo stadio San Paolo non fu la bolgia che Vialli e compagni si aspettavano. Tifò Italia, ma durante i rigori che Goichoechea parò a Serena e Donadoni la curva B esultò per l’Argentina. Era il segno definitivo dell’amore eterno di Napoli per Diego, il riconoscimento che prima della Patria veniva l’amore per l’uomo che aveva portato all’ombra del Vesuvio dignità, orgoglio e vittorie. Parole fino a quel momento quasi sconosciute nel vocabolario calcistico azzurro. Napoli, da ieri, è triste, nuda e violata. Come in rituale collettivo si è ritrovata in strada. Per qualche ora il Covid è sembrato un lontano ricordo. La bandiera di Diego sventola davanti allo stadio che è stato il suo tempio. Centinaia di tifosi si ritrovano per una veglia triste che accompagna la fine di un mito e l’inizio dell’eternità sportiva. Nel centro di Napoli c’è chi piange, chi accende lumini davanti ai murales del capitano che si trovano in ogni angolo della città. "Papà, ma chi è Maradona?" "Il più grande giocatore di tutti i tempi e amava Napoli e tutti noi" le parole pronunciate tra le lacrime.
